Edizione 2016

SPETTACOLI


PARASSITI FOTONICI

Teatro Filodrammatici, 20 gennaio 2016

di Philip Ridley

ROAD MOVIE

Teatro Elfo Puccini, 25 gennaio 2016

di Godfrey Hamilton

MEDEA

Teatro Franco Parenti, 30 gennaio

di Christa Wolf

BINGE DRINKING. MONDO LIQUIDO

Teatro Verdi, 17 marzo 2016

di Renata Coluccini e Mario Bianchi

HERMADA. STRADA PRIVATA

Teatro della Cooperativa

di Renato Sarti

L’ETÀ PROIBITA

Teatro Ringhiera, 26 aprile 2016

di Marguerite Duras, con Maria Pilar Perèz


VINCITORI 

Davide Calgaro – Liceo Classico Tito Livio

Martina Fontana – Liceo Scientifico A. Einstein

Giovanni Falascone – Liceo Scientifico A. Volta  


OUTPUT

Hermada. Strada privata – recensione di Davide Calgaro

Punti di vista.

Possiamo studiare ciò che è scritto riguardo la Prima guerra mondiale, leggere dati e statistiche e immaginare l’entità di quell’immane tragedia. Oppure entrarvi in prima persona, con un originale punto di vista, alto, quello di Hermada e San Michele. Due monti che durante la Grande Guerra hanno dominato i più celebri campi di battaglia dall’alto delle loro rocce, testimoni di ogni singola morte, i soli a vivere nel profondo la barbarie umana.

Punti di vista, decidere di limitarsi a vuote informazioni, ripetute prima di un’interrogazione davanti allo specchio, o rimanere a bocca aperta davanti al racconto dell’atrocità umana.

Cosa meglio del teatro sa superare banali date ed eventi, e scaraventare all’interno delle vicende scavando l’animo umano?

7 aprile, Teatro della Cooperativa, in scena Hermada.

E in un attimo si é travolti da una tempesta di ricordi, nessuna storia di eserciti, ma il dramma delle vite di uomini comuni distrutte. Il racconto é accompagnato dalla lettura di lettere ricevute o mandate dai soldati, che ci aiutano a vivere la tragedia di una famiglia orfana del padre e di un padre solo e abbandonato controvoglia tra il fango e il sangue.

Scenografia semplice, un panorama montuoso e due monti più alti, che nel corso dello spettacolo ci raccontano tutto ciò che “hanno visto e vissuto”. Le luci giocano un ruolo importante, concentrano infatti l’attenzione prima su un monte, poi sull’altro, e insieme ad alcuni suoni fuoriscena e a proiezioni confuse sui monti creano un’atmosfera di macabro disordine. La personificazione dei monti è affidata a due attori, che nonostante la giovane età, sembrano raccontare fatti vissuti sulla loro pelle, mettendo i brividi ad ogni grido lanciato al cielo in preda alla disperazione, ad ogni lacrima involontaria che compare sui loro volti.

Si poteva arrivare prevenuti, immaginando una lezione di Storia, e sprofondare comodamente nella poltroncina svegliandosi a fine spettacolo per dire con tono critico e intellettuale “davvero bello, mi ha toccato dentro”, trattenendo uno sbadiglio. Oppure lasciarsi sorprendere, provando a vivere, per quanto possibile, battuta dopo battuta, la storia attuale di un uomo, costretto a partire per motivi

economici, mascherati da stupidi patriottismi, il cui destino é distrutto, i cui sogni sono infranti tra il fumo delle armi e l’ odore acre del sangue. Spettacolo vivace, profondo e mai noioso, senza ricerca di morale o messaggi espliciti, ma che lascia largamente intendere la sua posizione riguardo la guerra, la più oscena invenzione dell’ uomo.

Accompagnato da due recitazioni magistrali e un’ottima regia.

Punti di vista.

Guerra, paura del diverso, barriere, o una bandiera della pace che sventola.

“La cultura delle armi o le armi della cultura”.

Punti di vista.

L’età proibita. Appunti biografici di Marguerite Duras – recensione di Martina Fontana

Normalmente la bravura di un attore si riconosce dal modo in cui riesce a sostenere il palcoscenico, oppure tenere alta l’attenzione del pubblico, ma nel caso dell’attrice Maria Pilar Perez Aspa, non le si può riconoscere solo questo. Il grande lavoro individuale sul personaggio di Marguerite Duras e l’elaborazione di interviste e appunti, le hanno permesso di dar vita ad uno spettacolo leggero, ma sul quale ragionare tanto. Lo spettacolo L’età proibita. Appunti biografici di Marguerite Duras, è stato molto applaudito il 26 aprile al teatro Ringhiera di Milano. E’ stato interpretato interamente da Maria Pilar Perez Aspa nei panni stessi della Duras che trovandosi davanti ad un gruppo di giornalisti, sebbene inizialmente controvoglia, finisce per raccontare svariate vicende della sua vita, che le offriranno numerosi spunti per parlare di temi fondamentali come la dipendenza, l’amore, l’ignoranza umana, la condizione femminile…La scrittrice viene presentata come una donna scomoda, che non ha paura di mostrarsi per quello che è, mettendo in luce tanto la sua forza, quanto le sue debolezze, rappresentando forse così un prototipo di donna moderna, che agendo nei propri errori è comunque in grado di comprendere come le donne non vengano ascoltate e siano sottovalutate dalla stupidità dell’uomo, uomo che secondo lei è rimasto lo stesso dal Medioevo al 1900.

Come i bambini, gli uomini si credono dei grandi eroi, ma la donna è colei che è in grado di accoglierli, e che necessiti di essere idealizzata per uscire dal proprio guscio. Marguerite Duras racconta la sua storia travagliata, della sua dipendenza, delle sue storie di una notte o del grande amore che ha trovato in un uomo più giovane, della famiglia che non aveva più, della durissima cura per la sua malattia, creata e aggravata dall’alcol, e di come si sia abbandonata alla morte. L’atmosfera intima è resa alla perfezione dalle poche luci, usate anche come stratagemma per raccontare episodi o creare le ombre che la invadevano nei deliri dell’alcolismo. Prova su di sé lo scandalo che arrecava l’alcolismo di una donna, senza poterne uscire, perché nonostante fosse consapevole del fatto che l’alcol portasse a morire ogni giorno, compensava la mancanza di Dio, portando però gli uomini verso la follia.

Marguerite Duras scrive di sé, di quello che non ha vissuto, della sua visione del mondo e del mare. Lei osserva il mare e cerca di capirne le forme. Nella sua vita travagliata era forse l’unica cosa che la riusciva a rendere tranquilla. Geniale infatti la scenografia di Maria Spazzi, scarna nel suo insieme, composta da un divano coperto da un telo azzurro che si srotolava tra le bottiglie di vino svuotate. Quel divano, man mano privato dei suoi cuscini e materassi per poterli usare come scenografia dei pensieri e dei ricordi dell’autrice, diventa una barca di legno, che cullerà Marguerite Duras nella morte, su quel tessuto azzurro che improvvisamente diventa il mare che lei aveva tanto amato.

Slot Machine – recensione di Giovanni Falascone

L’inizio: nulla, oscurità. Improvvisamente sospiri e risate isteriche rompono l’armonia del buio, accompagnate da altrettanto nevrotici fasci di luce.

Oscurità. Luci. Buio. Penombra. Torce che illuminano e affettano l’oscurità. Questo è “Slot Machine”.

Dalla prima all’ultima scena Alessandro Argnani recita immerso in un inquietante buio, e una qualsiasi variazione di quest’atmosfera assume importanza e significati inaspettati.

Il teatro Olinda, situato nell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, non è stato scelto a caso per la messa in scena di questo nuovo lavoro della compagnia “Teatro delle Albe”, riuscendo a portare gli spettatori fino in fondo a quella “fossa” in cui Doriano è caduto.

Doriano è figlio di contadini romagnoli, anch’egli contadino, uno sfigato, affogato nei debiti causatigli dal gioco, cominciato dalle corse dei cavalli per le quali “ci era portato” e poi finito nelle slot machine. Cerca soldi da sperperare ovunque li possa trovare, perdendo così il tanto curato trattore rosso sgargiante “New Holland” insieme a qualsiasi affetto e relazione umana, finché gli strozzini lo porteranno alla fine.

Sul palco tre specchi, due laterali e uno centrale. Doriano ricorda quel passato ormai fioco e malinconico di cui parla mentre si guarda in quegli specchi. Quello posto al centro, con delle lievi deformazioni, rende ancora più grottesca la realtà dell’altare sottostante sul quale Doriano torna più volte, si dimena e soffre, prima di morire.

Quattro gruppi di alberelli sono l’unico elemento che rimanda alla natura, alla freschezza, in netto contrasto con l’artificiosità del gioco, la vuotezza delle persone di città che ripudiano lo sfigato di campagna, con tutta la finzione che domina la vita moderna, ponendo “Slot Machine” anche in una posizione di denuncia allo Stato.

“oltre alla macchinetta non c’è niente, solo lei fa luce e tutto attorno è buio”

Cos’è la macchinetta? Cos’è il gioco? Le parole di Marco Martinelli sfiorano la filosofia facendo riflettere lo spettatore, che proprio quando se le ritrova sbattute in faccia dalla parlantina di quello sfigato, si trova immerso nell’oscurità, nel buio. Cos’è che fa luce allora, uno squarcio di luce nell’oscurità della vita di Doriano? Il gioco è la sua salvezza, ma allo stesso tempo la sua fine. Oppure il gioco è qualcosa di ben più ampio, intorno al quale c’è l’ignoto.

Meno studiato rispetto al resto, invece, è il lato musicale dello spettacolo, che non stupisce né disturba, rimanendo in una dimensione di generale mediocrità se non che per piccoli momenti in cui Argnani e lo stereo si trovano più d’accordo.

Il finale: luci spente. Doriano sull’altare, morto, affiancato da due fredde figure oscure che lo illuminano con due torce e lo osservano.

Anche qua ci si chiede chi siano quelle due figure, cosa rappresentino le torce.

L’agonia di Doriano supera la sola dimensione del giocatore sfinito e distrutto dalle sue abitudini, e come in un quadro di Rotchko, con pochi e semplici colori suscita domande e propone profonde riflessioni dalle quali nessuno può ritenersi estraneo.


PARTNERSHIP

Teatro Filodrammatici, Teatro Elfo Puccini, Teatro Franco Parenti, Teatro Verdi, Teatro della Cooperativa, Teatro Ringhiera