Edizione 2017

SPETTACOLI


GROSSO GUAIO IN DANIMARCA

3 febbraio h. 21.00, Alta Luce Teatro

FLY BUTTERFLY

21 febbraio h. 20.30, Teatro Verdi

ANTIGONE

24 febbraio h. 20.45, Teatro LaCucina Olinda

AMLETO FX

23 marzo h. 20.30, Teatro Sala Fontana

UN ALT(R)O EVEREST

30 marzo h. 20.45, Teatro Atir Ringhiera

FUORI MISURA

4 aprile h. 20.30, Teatro Leonardo

BULL

26 aprile h. 19.15, Teatro Franco Parenti

PROVE APERTE DI THE JUNIPER TREE

28 aprile h. 15.00, Teatro Elfo Puccini

THE JUNIPER TREE

12 maggio h. 19.30, Teatro Elfo Puccini

LE BUONE MANIERE

26 maggio h. 21.00, Teatro Libero


VINCITORI 

Ida Franciolli – Liceo A. Volta

Roberta Montrasio – Liceo Classico Carducci


OUTPUT

Un alt(r)o Everest – recensione di Ida Franciolli

Il teatro Atir si trova seminascosto nella periferia di Milano. Non appena si sono spente le luci in sala il palco si è trasformato nella vetta innevata del monte Reyner. Jim e Mike, amici di lunga data, affrontano la scalata dei loro sogni, ma un imprevisto a metà percorso stravolge i loro piani.

Una storia di montagna che non parla solo di picozze, bivacchi e vie ferrate, ma di ognuno di noi, delle ansie che contraddistinguono il nostro tempo, di amicizia, di ferite invisibili che faticano a rimarginarsi. Grazie a frequenti flashback, che si alternano in modo scorrevole e naturale alla vicenda principale, il pubblico scopre i due protagonisti e ci si immedesima fin da subito, trattenendo il fiato per tutto lo spettacolo.

Lo spazio scenico in cui si svolge la narrazione è occupato solamente da due sedie- Potrebbe sembrare una scelta banale, ma con il progredire dello spettacolo si apprezza la scenografia spoglia perché permette a ogni spettatore di immaginare la propria montagna, sia in senso letterale che figurato. Le sedie concorrono a dare valore al minimalismo degli oggetti di scena: nel corso dello spettacolo vengono scomposte in vari moduli irregolari, poi sparsi per il palco in modo che sembrino parzialmente inglobati nel pavimento. Solo alla fine le sedute vengono ricomposte divenendo metafora dell’animo umano, che riesce sempre a ricucire anche gli strappi più profondi riprendendosi poco a poco dopo traumi devastanti.

Anche l’interpretazione è ottima e probabilmente gioca un ruolo importante il fatto che Mattia Fabbris (Mike) e Jacopo Bicocchi (Jim) siano, oltre che attori, registi e curatori dell’adattamento teatrale del romanzo “La morte sospesa”, da cui è tratto lo spettacolo. Infatti i vari aspetti che compongono l’opera si incastrano perfettamente tra loro rendendo impossibile allo spettatore la rottura del patto narrativo.

Lo spettacolo non si configura solo come una storia di avventura appassionante e ben costruita, ma offre anche numerosi spunti di riflessione per giovani e adulti a proposito del bisogno di sicurezza e di certezze, in cordata come nella vita, soffermandosi inoltre sulla paura di essere, in realtà, completamente soli, nonostante si sia spesso circondati da molte persone. I protagonisti si interrogano su questi temi pur non fornendo risposte preconfezionate e valide per tutti. Lasciano il pubblico con tanti interrogativi e la voglia di indagare a fondo la propria vita per trovare personali risposte a quesiti tanto importanti. E forse sono proprio le domande scaturite dalla visione dello spettacolo che lo rendono così speciale e apprezzato.

Il ring di Bull – recensione di Roberta Montrasio

La poltrona dello spettatore che si ritrova catapultato sul vero e proprio ring di Bull è estremamente scomoda; è infatti il pubblico la prima vittima della violenza di questa nuova drammaturgia di Mike Barlett, rappresentata attraverso un ritmo incredibilmente incalzante all’interno di un ring completamente spoglio posto allo stesso livello del pubblico, quasi a sottolineare quanto quest’ultimo sia uno dei primi obiettivi della demolizione psicologica a cui assiste. Luci fredde e nulla più che delle ringhiere nere delimitano lo spazio in cui danzano, si battono e si muovono i tre personaggi principali: Tony, Isabel e Thomas, l’apparente vittima della situazione.

I tre, colleghi di lavoro, lottano per mantenere il loro posto in un’azienda e Thomas, fisicamente svantaggiato e sgraziato, subisce da parte degli altri una totale demolizione psicologica e umiliazione fisica che ha tutte le caratteristiche peculiari del bullismo tra giovani come la situazione di due contro uno, l’infantilità e la progressiva bassezza delle offese utilizzate.

Particolarmente accurato è il lavoro sul linguaggio del corpo di ciascuno degli attori: Thomas è perfettamente paragonabile ad un toro in balia dei due “matadores” complici, che conducono chiaramente i giochi e anche i suoi movimenti sul palco. Bull induce continuamente il suo spettatore a porsi nuovi interrogativi, gioca con lui mettendolo in crisi, non gli permette di individuare un vero eroe della vicenda e nemmeno un totale antagonista, lo costringe inevitabilmente a provare una proibita simpatia per gli aggressori.

“Quante volte ci siamo trovati noi a prendere per il culo?”. La moralità di chiunque assista alla scena lo farà sentire in dovere di schierarsi dalla parte della vittima, ma quanto Thomas in realtà è complice di tutto ciò che gli succede? Si tirerebbe indietro se l’obiettivo fosse qualcun altro? Se il suo desiderio fosse solo quello di essere come gli altri due? Bull è un viaggio introspettivo che coglie l’uomo nei suoi tratti più animaleschi e crudeli riuscendo contemporaneamente a scomodare chi guarda dall’esterno che si ritrova pervaso da quei pregiudizi e istinti che prima di quel momento riteneva lontani da sé e dai propri – apparentemente – ferrei ideali. Tra questi pregiudizi emerge chiaramente la comune immagine di donna legata alla maternità, alla dolcezza e alla compassione, che, non concordando con la freddezza assassina e la natura approfittatrice dell’unico personaggio femminile, Isabel, fa in modo che questa risulti più insopportabile del suo superbo e viscido alter ego maschile, Tony. Siamo davvero nella società avanzata ed emancipata in cui ci illudiamo di vivere? Mike Barlett non scrive per chi spera in un ordinario messaggio positivo privo di spunti riflessivi che terranno occupato lo spettatore per più di mezz’ora, ma per chi, messo davanti allo spaventoso realismo dell’opera, capirà che solo scontrandosi bruscamente con la legge del più forte e con la cruda realtà, solo finendo al tappeto con Thomas, è possibile rendersi conto di quanto siano fragili i valori e gli ideali che sosteniamo spesso solo superficialmente.

Istintivo e diretto è il collegamento tra violenza fisica e violenza verbale: la parola è un’arma e il colpo decisivo a Thomas non poteva che essere inflitto con un lungo monologo finale da Isabel, che ribadisce e ricalca in modo disturbante e fastidioso quanto già reso chiaro, seppure non in modo diretto, in tutta la parte precedente dello spettacolo. “Se vediamo qualcuno che rischia di mandarci tutti in merda ci viene un desiderio profondo di schiacciarlo per rafforzare la tribù” queste le parole con cui Isabel giustifica le sue azioni e manda metaforicamente e fisicamente al tappeto Thomas. Azzeccate sono la superfluità e la ripetitività del monologo, che risultano molto efficaci perché l’insistenza sugli stessi punti, il ripresentare le stesse parole in diverse salse è caratteristico della violenza psicologica.

Thomas al tappeto e poi il buio; lo spettatore, vittima o carnefice, può finalmente liberarsi dalla morsa di quella maledetta poltrona.


PARTNERSHIP

Alta Luce Teatro, Teatro Verdi, Teatro LaCucina Olinda, Teatro Sala Fontana, Teatro Atir Ringhiera, Teatro Leonardo, Teatro Franco Parenti, Teatro Elfo Puccini, Teatro Libero