EDIZIONE 2024
I finalisti hanno avuto la possibilità di seguire un workshop immersivo di giornalismo culturale presso il Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. Dopo l’attività teorica e laboratoriale gli studenti, divisi in due squadre, hanno assistito allo spettacolo MOTHERS A SONG FOR WARTIME di Marta Górnicka. I partecipanti si sono poi sfidati nella creazione di due pagine culturali intitolate “PRIMA FILA” e ”SCONFINANDO“ .
Dopo una fase di valutazione la giuria ha decretato “SCONFINANDO” come la testata vincitrice dell’Edizione 2024.
Qui i nomi delle finaliste e dei finalisti del concorso 2024: Manuel Alderuccio, Silvia Sole Colombo, Davide de Nardis, Dakota Mazzocchi, Ottavia Steffano, Lavinia Postiglione, Dalia Tommasoni, Giacomo Paolo Giorgi, Viola Pilo, Alessandro Guzzeloni, Alessia Carozzi, Giulia Praderio, Elia Savi, Lorenzo Vinelli, Greta Janiri, Lorenzo Tiani, Flavia Stella, Laura Forti (La Spezia), Sante Bandini (La Spezia), Carlo Rocchi (Sarzana).


RECENSIONI DEI VINCITORI
Manuel Alderuccio (2°H, Donatelli)
Lo spettacolo teatrale “Baccanti” di Euripide, ha segnato un momento di svolta nell’interpretazione delle tragedie classiche. Quest’opera ha saputo riscrivere completamente il suo nucleo narrativo, conservando intatta soltanto la trama originale mentre tutto il resto è stato reinventato e ripensato in una veste moderna e avvincente.
Il lavoro tecnico svolto dietro le quinte è stato fondamentale per creare questa esperienza immersiva e coinvolgente. Le luci, gestite con maestria e calibrate con precisione, hanno creato un’atmosfera avvolgente e misteriosa, trasportando il pubblico direttamente nel cuore della narrazione. I costumi, audaci e ricchi di dettagli curiosi, hanno svolto un ruolo fondamentale nel trasportare gli spettatori in un universo parallelo, un mondo in cui la realtà si fonde con la fantasia.
Il “sottofondo” musicale ha inoltre svolto un ruolo altrettanto essenziale nell’interpretazione: un remix techno innovativo e prepotente, curato con maestria da una DJ di talento, ha dato vita alle visioni senza limiti del regista Filippo Renda. Inoltre la musica, essendo ad un volume molto elevato e avendo un ritmo sempre più incalzante contribuiva a creare una sensazione di stordimento che permetteva di vivere il momento nel modo più fedele possibile a quello che le attrici interpretavano.
Una nota di merito spetta all’’aspetto spaziale del Teatro Litta che è stato trasformato appositamente per accogliere questa rivoluzionaria interpretazione. Le poltrone sono state rimosse per creare uno spazio centrale circolare, intorno al quale le sedie sono state disposte in un cerchio. Questa disposizione non solo ha favorito un senso di intimità e vicinanza tra gli spettatori e gli attori, ma ha anche presentato una sfida, quella di riuscire a coinvolgere il pubblico in ogni lato: Le attrici hanno risposto a questa difficoltà con maestria, muovendosi con grazia e sicurezza per l’intero spazio, coinvolgendo gli spettatori con sguardi penetranti e gesti eloquenti in ogni lato spesso anche cambiando posizione per coinvolgere tutti.
Tuttavia, il fulcro indiscusso di questa rivoluzionaria rappresentazione sono state le straordinarie attrici. Un punto che non può passare inosservato è il fatto che tutte le interpreti, inclusa colei che ha vestito i panni di Peleo o del dio Bacco, fossero donne. Questa scelta, oltre a essere un chiaro segno di modernità e progresso, ha conferito alla narrazione nuove sfumature e significati, mettendo in luce le voci femminili in un mondo spesso dominato da figure maschili. L’unica presenza maschile, il regista stesso nel ruolo del servo delle Baccanti, ha aggiunto uno strato di complessità e ambiguità, quasi come un capovolgimento dei ruoli che il patriarcato ha stabilito negli anni.
La grandiosità di “Baccanti” al Teatro Litta di Milano va ben oltre la mera scenografia e l’interpretazione degli attori. Si tratta di un’opera che, nel suo rivoluzionare le convenzioni teatrali, ha aperto una finestra su tematiche universali e attuali. Il confronto tra tradizione e modernità, il ruolo delle donne nella società e nelle narrazioni storiche, l’ambiguità delle passioni umane: tutto questo si è intrecciato in una rappresentazione densa di significati e di emozioni.
In un momento storico in cui il teatro e le arti in generale possono offrire riflessioni profonde sulla società e sulle relazioni umane, “Baccanti” si erge come un faro di innovazione e di creatività.
L’esperienza offerta al pubblico è stata ben più di una semplice rappresentazione teatrale. È stata piuttosto un’immersione totale, coinvolgente a 360 gradi, che ha richiesto agli spettatori di non essere semplici osservatori, ma di diventare partecipi attivi di un viaggio emozionale e intellettuale. Una sorta di incantesimo che si è dipanato tra le mura del teatro, trasformando gli spettatori in veri e propri viaggiatori di un mondo ricco di suggestioni e misteri.
È un’opera che non si limita a emozionare e a intrattenere, ma che invita il pubblico a riflettere, a interrogarsi sulle proprie convinzioni e a esplorare nuove prospettive.
“Baccanti” non è stato soltanto uno spettacolo teatrale, ma un’esperienza totale che ha trasceso i confini del tempo e dello spazio. Grazie alla genialità delle attrici, alla visione audace del regista e alla cura meticolosa degli aspetti tecnici, questa rivisitazione ha offerto al pubblico un viaggio emozionante e stimolante attraverso la potenza e la bellezza della tragedia classica. Un’opera che, nel suo abbracciare il passato per illuminare il presente, ha tracciato una nuova strada per il teatro contemporaneo. Un’epopea di emozioni, di pensiero e di arte che ha conquistato il cuore e la mente di chi ha avuto il privilegio di assistervi. E così, tra le luci sfumate del Teatro Litta, si è consumata un’esperienza che resterà indelebile nella memoria di chi ha avuto la fortuna di essere presente.
Silvia Sole Colombo (5°G, Parini)
Urla, danze, gemiti, contorsioni, guaiti, balzi. Lasciate che questi corpi indemoniati, nel senso greco del termine, vi diano il benvenuto nel Baccanale!
Il regista, nei panni di un personaggio, sfonda la quarta parete accogliendovi a Tebe e mostrandovi un’iniziazione ai riti della dea Dioniso. Avete letto bene: della dea. I più puristi permetteranno questa libertà registica ricordandosi della polimorfia di Dioniso, tra le sue caratteristiche rientrava infatti il suo poter essere sia uomo che donna. Già nella società moderna inoltre il potere è brandito dagli uomini, che almeno nella finzione teatrale possa essere una donna a detenere l’autorità suprema!
La musica arriva vibrante attraverso il pavimento prima ancora di entrare nella sala buia. Tuttavia non lasciatevi ingannare dall’antichità dell’opera, ad accompagnarvi non saranno infatti dolci melodie, ma il folle delirio della techno. Con la dj posta davanti a voi immergetevi nel rave della serata, accogliete l’energia delle Baccanti, esse vi scrutano con occhi vitrei e sorrisi folli fino a farvi contorcere nelle poltroncine. Non potrete scappare dal disagio di quegli sguardi, le sedute sono poste circolarmente attorno al palco. E allora non fuggite. Lasciatevi inglobare. Lasciate che la dea entri in voi. Lasciatevi possedere. Si è abbandonata a questo potere Agave. Ma sapete chi ha disconosciuto la dea? Penteo, figlio di Agave e re di Tebe. Penteo, il razionale tra i folli, penserete all’inizio, e magari lo era davvero, ma davanti a una dea vendicativa poco può un uomo qualsiasi. Dioniso infatti è in cerca di vendetta, quando la madre Semele la portava in grembo non era stata creduta incinta del dio Zeus ed era perciò stata disconosciuta dalla famiglia, terribile vergogna per Semele e per Dioniso stessa. Semele era sorella di Agave, questo rende Dioniso e Penteo cugini. Penteo è contrario ai nuovi riti che invadono la sua città e prova più volte a interrompere il Baccanale non riuscendo a identificare il potere della dea. E chi è più folle di colui che può vedere ma sceglie di non farlo? Ascoltate la richiesta delle attrici al momento degli applausi. Andate a teatro. Aprite gli occhi sulla realtà. Non siate come Penteo. Cessate il fuoco.
Davide de Nardis (4°B, San Carlo)
Nell’opera teatrale, interamente in francese, ideata e diretta da Lina Saneh e Rabih Mroué ho partecipato alla visione del fotoromanzo narrante la storia di un uomo e una donna dai ruoli marginali nella società del tempo, attraverso una combinazione di performance dal vivo e proiezioni video.
Raccontata attraverso la particolare scelta del fotoromanzo, la storia narrava di una conoscenza reciproca tra due giovani che poi, con il passare del tempo, cedono l’uno all’altra, e il rapporto sfocia poi in passione amorosa. L’intero racconto è ambientato a Beirut, con un contesto politico preciso, che gli attori mettono in risalto per far riflettere il pubblico. L’idea era di organizzare uno spettacolo nello spettacolo, con gli attori che durante lo spettacolo, ragionavano su come avrebbero dovuto fare lo spettacolo stesso.
Gli artisti hanno esplorato temi complessi come la memoria e la politica, offrendo al pubblico uno spunto di riflessione sul mondo contemporaneo. La visione del fotoromanzo era interamente in francese con però la presenza di sottotitoli per rendere comprensibile la storia anche a coloro che non comprendono la lingua. La scelta dei materiali visivi e sonori, dei quali ho avuto la possibilità di fare una domanda a riguardo, ha contribuito a creare un’atmosfera coinvolgente, che ha reso lo spettacolo un’esperienza unica.
Nonostante un’idea di teatro innovativa, l’esperienza non è stata di mio gradimento per i temi trattati e per la storia, dal mio punto di vista non intrattenente e facile da seguire per un ragazzo della mia età che non possedeva conoscenze riguardo alla situazione politica raccontata e che non aveva visto il film da cui è stata presa l’ispirazione per questo spettacolo. In definitiva è stato uno spettacolo che ha fatto riflettere e ci ha fatto conoscere un nuovo genere teatrale ma che non mi ha convinto a pieno per varie ragioni legate alla trama.
Dakota Mazzocchi (Molinari)
“Baccanti” è un’opera teatrale di Filippo Renda che esplora i temi della religione e della pazzia in maniera originale e interessante. Ci troviamo al teatro Litta di Milano, appena dentro una sala buia che odora intensamente d’incenso, e musica ritmica che fa vibrare il petto. Il pubblico entra subito a far parte del rituale di Dioniso, celebrato da donne che si danno alla libertà festeggiando nella notte, lasciandosi alle spalle le regole imposte dalla società.
Il regista ha scelto una disposizione circolare dello spettacolo per permettere alla platea di vedere il volto degli altri spettatori, offrendo una sensazione di compagnia permettendo di condividere emozioni e sensazioni. Le attrici sono state molto brave nell’esprimere la loro euforia. Mi colpisce il fatto che per tutto lo spettacolo abbiano avuto il fiato per recitare ad alta voce e ballare allo stesso tempo ripetutamente.
Gli abiti e le maschere che indossavano apparevano di un epoca antica, ciò andava in contrasto con la musica di sottofondo che è simile a quella suonata nelle discoteche, nei rave; provocando a volte un senso di smarrimento. Il regista è riuscito con successo a mandare il messaggio chiave agli spettori: stimolando a lasciar perdere i pregiudizi, gli stereotipi dettati dalla società e avere quindi tutto il diritto di sentirsi liberi, manifestando la propria gioia.
Ottavia Steffano (Liceo Setti Carraro)
Le “Baccanti”, quelle figure misteriose e sfuggenti dell’antica Grecia, continuano a esercitare un fascino su di noi anche ai giorni nostri. Il regista Filippo Renda, con lo spettacolo “Baccanti: Il regno del dio che danza”, cerca di far luce su queste enigmatiche celebrazioni. Ma chi potrebbero essere le “Baccanti” nel mondo contemporaneo? E i riti baccanali, esistono ancora? Se sì, in che forma?
Questo spettacolo ha trasportato gli spettatori nella Tebe dell’antichità. Per circa due ore, siamo stati immersi nelle feste dionisiache, testimoniando sacrifici, svenimenti, litigi, morti e resurrezioni, bolle di sapone e foglie e fiori lanciati in aria. Cinque talentuose attrici e una deejay hanno dato vita a questa esperienza viscerale, permettendo al pubblico di partecipare, anche solo per un istante, a una festa dionisiaca. La musica ha giocato un ruolo fondamentale in tutto ciò. Il volume assordante creava un’atmosfera di tensione, mentre nei momenti di calma, l’abbassamento graduale di questa ha amplificato, in seguito, l’effetto climax. Senza questa colonna sonora avvincente, l’esperienza sarebbe stata sicuramente completamente diversa.
L’intermezzo comico tra Tiresia, l’oracolo di Tebe, e Cadmo, il nonno di Penteo, è stato un tocco geniale nello spettacolo. Ha permesso agli spettatori di distaccarsi per qualche minuto dalla confusione dei riti e di godersi una scena resa comica dalle straordinarie interpretazioni delle attrici. Tiresia che parla in dialetto napoletano e Cadmo che intona una canzoncina di compleanno in danese: un mix sorprendente e divertente. E ancora, il finale ha servito l’intento con cui lo spettacolo è stato concepito: ribaltare la realtà e immergersi in un mondo suggestivo in cui tutto è possibile. Quanto alla scelta di rappresentare il dio Dioniso al femminile, ossia come ‘la dea Dioniso’, è stata una sorpresa. Tuttavia, è chiaramente l’intenzione del regista, Filippo Renda.
Sebbene l’esperienza sia coinvolgente, la durata può risultare eccessiva. In particolare, il tempo dedicato alle sequenze narrative è nettamente inferiore rispetto alla rappresentazione del rito. Non so se sia intenzionale o meno, ma in ogni caso, risulta troppo lungo. “Baccanti: Il regno del dio che danza” ci ha fatto riflettere sulla persistenza di antichi rituali nel nostro mondo contemporaneo e sulla loro capacità di coinvolgere e trasformare chi vi partecipa. Un viaggio nel tempo e nell’anima umana, che ci ha lasciato con domande e suggestioni.
Lavinia Postiglione (3°C, Parini)
Si apre il sipario. Sette donne si trascinano per il palco, ombre sulle pareti. Gridano. E i loro echi rimbombano per tutta la sala. Sono madri addolorate per la morte dei figli, i sette eroi che morirono sotto le porte di Tebe. Sono supplici, perché chiedono indietro i corpi dei loro bambini. Sono il coro nella tragedia di Euripide, ma diventano protagoniste nella reinterpretazione di Serena Sinigaglia, regista italiana, che al Teatro Menotti, dall’8 al 10 marzo 2024, ha messo in scena Le supplici in chiave moderna. Soltanto sette le attrici, che incarnano le madri e gli altri personaggi, segno dell’emancipazione femminile, visto che nell’antica Grecia a recitare erano solo gli uomini.
La tragedia comincia quando le madri dei guerrieri argivi, sconfitti a Tebe, supplicano il re degli ateniesi, Teseo, di aiutarle a dare degna sepoltura ai figli, poiché i tebani negano la restituzione dei cadaveri. Teseo, sotto consiglio della madre Etra, un’altra donna finalmente centrale nella storia, decide di assecondare le loro richieste. Quando un araldo tebano gli intima di non intromettersi, il giovane re tenta di spiegargli le ragioni che lo spingono a compiere questa impresa, tutti valori di libertà e uguaglianza: inizia così il cuore dello spettacolo, il dialogo tra Teseo e l’araldo, lo scontro tra democrazia e tirannide. Si scorge la bravura di Euripide, uno dei massimi tragediografi greci, che ci fa riflettere sulle problematiche e le contraddizioni della democrazia: Atene si può veramente definire una democrazia, anche se diretta da un sovrano? Chi sta sei mesi al governo, come accadeva in Grecia, può imparare a governare? In questo botta e risposta, un vero e proprio agone retorico, incredibilmente vince l’araldo, l’ultimo dei due a parlare.
La storia continua: Atene vince la guerra contro Tebe e i corpi degli eroi argivi vengono restituiti alle madri e celebrati durante i funerali dal re di Argo, Adrasto. La sofferenza delle supplici “finisce”, ma quella guerra iniziata dagli Ateniesi ha generato altro dolore: moltissimi sono i morti in battaglia, moltissime le madri che piangeranno i propri figli. Un ciclo continuo e inevitabile. Ed eterno, al punto che la moglie di uno dei sette eroi morti a Tebe, Evadne, si getta sul rogo del marito e avvolta dalle fiamme muore per non dover continuare a soffrire.
La narrazione si avvia verso la fine con il giuramento di un’alleanza tra Teseo e Adrasto, fra Atene e Argo, voluta dalla dea Atena. Ma non ci sarà per molto la pace: la tragedia si chiude con la profezia di una nuova guerra e con i lamenti delle madri, che sono anche figlie, nonne, mogli, che ancora una volta si struggeranno per i caduti, grideranno, si ritroveranno a essere solo ombre, “né vive né morte”. Le supplici siamo anche noi: per questo le luci del palco in certi momenti si rivolgono verso la platea. I dolori delle guerre sono ancora attuali. Questo spettacolo, nonostante sia stato scritto nel quinto secolo avanti Cristo, resta attuale. Ancora di più grazia a Sinigaglia, che è riuscita a raccontare una storia nella storia, quella delle donne oggi. Ci troviamo alla fine a piangere per le donne iraniane che lottano per i propri diritti, per la propria libertà, per le donne israeliane, che il 7 ottobre sono state picchiate, stuprate, bruciate, per le donne palestinesi che perdono i propri figli e patiscono la fame, per le donne ucraine, che ormai da due anni sopportano una guerra immotivata. Un invito a non restare supplici, ma ad alzarci, insieme, e lottare per un mondo migliore.
Dalia Tommasoni (Setti Carraro) / Una dea diversa
La musica rimbomba nelle orecchie, un forte odore di incenso pervade le narici, il cuore palpita al ritmo dello spettacolo. La sala del teatro Litta non è più riconoscibile, le sedie disposte in cerchio cingono un’area sacra, chi assiste non è un semplice spettatore. Il pubblico si trasforma nelle donne di Tebe, invitate a partecipare al rito dalle baccanti. Le attrici sono completamente immerse nella parte, la loro danza è movimentata, estatica, quasi furiosa. Incontro un sorriso che mi dice: “alzati, balla con noi.” Vorrei lasciarmi andare, ma rimango seduta. Ciò che mi tiene incollata alla sedia non è l’imbarazzo, ma la sensazione di non essere necessaria. Quel momento cosi intenso è completo e non ha bisogno di me. Paradossalmente, più la rappresentazione diventa accurata e vera, più ne vengo esclusa.
Il regno del Dio che danza è uno spettacolo che lascia spaesati, pieno di apparenti contraddizioni. Entrando nella sala e vedendo un uomo che compie gesti rituali si può pensare che sia Bacco, ma si rimane disorientati quando le baccanti invocano la dea Dioniso. Dea. Una prima certezza viene messa in discussione. Una caratteristica centrale del culto di Dioniso è proprio quella di sconvolgere ciò a cui si è abituati. A Penteo, il re di Tebe, questo aspetto della dea straniera fa paura. La diversità lo inquieta, decide quindi di celare la sua identità e di spiare le baccanti. Quando Penteo viene scoperto, ci si aspetterebbe di assistere ad una scena straziante, ma inaspettatamente Agave prende per mano il figlio e lo accompagna amorevolmente alla scoperta del rito. In questo modo la morte di Penteo non viene annullata, ma letta sotto una chiave diversa. Il re entra in un catino e si cosparge di polvere rossa, il sangue, allo stesso tempo simbolo di morte e nascita. La morte, che nella tragedia appare come una punizione crudele, assume un senso, si trasforma in riscatto. “Ciò che voi greci chiamate equilibrio vi porta solo angoscia”, questa frase, pronunciata da una baccante e rivolta a Penteo, mostra come l’unica differenza tra i due sia l’armatura che il re porta. L’equilibrio da cui Penteo pensa di essere protetto è una prigione in cui si è rinchiuso da solo. La razionalità è un’effimera rassicurazione in confronto alla consapevolezza di non potere nulla contro l’irrazionalità. Il prezzo che Penteo deve pagare per liberarsi dalla sua armatura è altissimo, insostenibile, tanto che il re ci ammonisce, ci intima di non seguire il suo esempio.
Lo spettacolo vuole porre una domanda: quanto è rimasto nella nostra vita quotidiana di ciò che muoveva le baccanti? Sta a noi rispondere. Nelle settimane che seguono la rappresentazione tornano in mente sprazzi di immagini, scene, emozioni, evocate da specifiche situazioni: quando si ascolta la musica e la si lascia entrare dentro di se, quando si balla senza preoccuparsi di altro, quando si manifesta striandosi le guance di rosso, quando si urla, quando si infrangono i canoni, quando si è spontanei. In tutti questi momenti, e in molti altri, si ritorna baccanti. Tra i tanti temi che potrebbero essere comparati ai culti dionisiaci Filippo Renda, il regista, ha scelto il femminismo. Capita spesso di sentire discorsi come “non vorrei che pensassi che io sia femminista!”, come se fosse un’onta, una vergogna. Non conoscere e non capire qualcosa potrebbe suscitare curiosità, voglia di imparare, e non solo tra i giovani. Questo lo dimostrano Cadmo e Tiresia, due vecchietti che, nonostante le ammaccature, o forse proprio grazie ad esse, vestono panni femminili per partecipare a qualcosa di nuovo. Troppo spesso, però, entra in gioco la paura, a volte non capire porta a disprezzare. Un movimento additato come tremendo solo per la sua diversità e intenzione di rivoluzionare alcuni meccanismi radicati. Il femminismo oggi incontra gli stessi ostacoli che il culto di Dioniso incontrò nell’antica Grecia: i pregiudizi.
Giacomo Paolo Giorgi (3G°, Einstein)
Dal 27 Febbraio al 24 Marzo si sono consumati in corso Magenta dei riti bacchici. Sono avvenuti vicino al famoso bar milanese omonimo al corso, al Teatro Litta, che è diventato per queste sere un tempio ospitante le possedute dal dio Dioniso. Il tempio aveva spazio anche per alcuni spettatori, che nella penombra potevano scrutare incuriositi i balli e la storia delle invasate.
Una storia antica, risalente alla penna di un tragediografo nato sull’isola di Salamina, Euripide. Una storia che è stata ripresa dal regista Filippo Renda, che l’ha reinventata, a seguito di un approfondito studio delle tradizioni misteriche. Fuori dal teatro si sentono rimbombi, come in una discoteca. Di fianco all’ingresso un cartello: “Baccanti, il regno del dio che danza”. Dietro una porticina, c’è una saletta rettangolare e leggermente pendente, dall’alto la dj Sofia Tieri suona musica techno. Una luce calda la attraversa, illuminando posteriormente anche le tende rosse del sipario come in un film di David Lynch. Al centro della sala, una luce circolare delimita il “palcoscenico”, le sedie degli spettatori sono poste a raggiera tutto intorno, accennando alla forma ellissoidale degli anfiteatri greci. Questa scelta è risultata ambivalente, poiché se da una parte ha creato una tridimensionalità della vicenda e ha contribuito a riprendere quel coinvolgimento tipico del teatro greco, dall’altra talvolta rendeva difficile cogliere le scene e le espressioni delle attrici, che potevano capitare di spalle.
Tutto il cast era composto da attrici, che hanno interpretato con passione e credibilità ambo i ruoli maschili e femminili, sottolineando la potenzialità e l’espressività del corpo femminile, centrale nello spettacolo. Il focus era proprio posto sulle baccanti e sui loro riti, cosa mai fatta ai tempi dei greci, ma senza perdere l’integrità e la corretta sequenza delle scene della tragedia. Unico uomo era il servo di scena interpretato da Filippo Renda che, nonostante l’utilità, comprometteva l’armonia tra le figure femminili.
I fatti della tragedia di Euripide sono stati rappresentati in modo efficace, anche se non erano i protagonisti dello spettacolo. L’epilogo ha costituito un’eccezione. Il finale alla “Quentin Tarantino” della tragedia, è stato risparmiato, omettendo la violenza che porta alla morte del protagonista. Il regista ha proposto invece la sua visione alternativa, ma sarebbe stato interessante godere la resa del finale originale, che rappresenta l’apice di tensione nella tragedia. Premio ai costumi, grotteschi, bizzarri ed esagerati, che sono stati mezzi utili per esprimere alcuni concetti chiave. Significativo il costume di Dioniso, che bene esprimeva la follia e la androginia del dio. Le baccanti parevano sospese, legate dalla sorellanza e dalla ritualità dei gesti. Luci, movimenti dei corpi, voci hanno creato una tensione quasi cinematografica, che a tratti ha ricordato Suspiria di Dario Argento. Messa in scena peculiare per l’interessante l’utilizzo della terra, delle foglie, dell’acqua e dei giochi con i veli, con i quali le baccanti si coprivano l’un l’altra. Uno spettacolo originale e coinvolgente, fuori dagli schemi, attuale. Le donne alla fine dello spettacolo hanno alzato uno striscione con scritto “stop the fire”, che ha ricatapultato nell’attualità, stimolando un collegamento tra i fatti narrati nella tragedia quali la guerra e i fatti di oggi.
Viola Pilo (3C°, Parini)
“Non appartengono né ai vivi né ai morti” le supplici di Serena Sinigaglia. Le sette donne che danno il nome alla tragedia di Euripide entrano in scena e non la lasciano mai: la loro presenza eterna sul palco è simbolica del loro eterno ruolo di spettatrici ad un dolore che non ha fine. La regista presenta davanti al pubblico del teatro Carcano l’opera greca con un sapore moderno, in cui spicca il valore senza tempo delle riflessioni a cui già ci invitava il tragediografo. Colpisce, nella rappresentazione, la forza del coro di sette donne imploranti, che dirige l’intera trama. Una supplica incessante e implacabile, dalla quale talvolta emerge una singola madre, per raccontare la sua storia, per farsi portavoce del dolore del gruppo e parlare con gli spettatori, portandoli a riflettere. Sono proprio lorole protagoniste della scena. Madri degli eroi caduti nella guerra di Tebe, si stringono nel lutto per chiedere al sovrano di Atene, Teseo, di recuperare i corpi dei figli e dar loro degno seppellimento. È loro dunque il potere di portare, con le proprie preghiere, a una nuova guerra.
Principale è il tema della democrazia. Un araldo tebano mandato da Creonte per convincere Teseo a non accettare la richiesta delle donne, intraprende con lui una discussione proprio su questa forma di governo. Da un lato Teseo è un sovrano illustre, che si vanta di decidere sulla base del volere del popolo, e che difende quei valori della democrazia che, sebbene modernizzati, elogiamo anche tutt’oggi in tale forma di governo. Dall’altro l’araldo avanza critiche intelligenti e per niente scontate. Viene abilmente messa in luce la fragilità della democrazia e la sottile linea che la separa dall’oligarchia, e a questo contribuisce il tono ironico del personaggio di Teseo. In un’Italia in cui la fiducia nello Stato diminuisce sempre più, in cui non si può ignorare l’affluenza alle urne tanto bassa, il discorso dell’araldo sembra particolarmente convincente. Gli Ateniesi dell’epoca di sicuro non si sentivano interamente rappresentati dal proprio sovrano, ma neanche gli Italiani di oggi paiono rivedersi nelle voci dei propri politici. Talvolta, i loro discorsi sembrano davvero un monologo comico come quello di Teseo.
È brillante la recitazione delle sette attrici, che interpretano tutti i ruoli: sempre presenti come coro, si separano singolarmente dal gruppo nella parte di altri personaggi, per poi essere ringoiate nel nucleo originale. Questa scelta scenica conferisce movimento e fluidità allo spettacolo, oltre a ribadire l’immagine del gruppo di supplici come presenza eterna e fuori dal tempo. La forte emotività e tragicità greca è mantenuta, eppure i toni sono vari, toccando a volte anche l’ironico e riuscendo ad alleggerire e colorare la rappresentazione. Le attrici utilizzano inoltre assai abilmente lo spazio, che riempiono e sfruttano a pieno con composizioni dinamiche e comunicative. Notevole è d’altronde la regia. Il coro di donne non è solo voce, ma anche corpo. Talvolta tutte e sette sembrano unirsi in un unico movimento unanime, con movimento pieni e carichi di espressività. I corpi sono appesantiti dal dolore, ma non cedono nonostante la fatica, esprimendo a pieno il carattere delle madri. Le luci accentuano la drammaticità di alcune scene, come anche la musica ritmata e incalzante.
E tuttavia una volta conclusasi la guerra e raggiunto il loro obbiettivo iniziale, l’animo delle protagoniste non è ancora sereno. Esse acquisiscono piuttosto una nuova consapevolezza e ci rivelano che il dolore porta ad altro dolore. Il desiderio legittimo di dare sepoltura ai figli persi, nato da una profonda sofferenza, vale però la pena di un ulteriore male, di ulteriori morti e ulteriore dolore? Così le supplici ci parlano, toccando profondamente noi spettatori del mondo di oggi. Il dubbio che sorge a loro sul palco è una domanda che ci poniamo anche noi, vedendo bambini strappati alla vita, famiglie distrutte dalle guerre. Sembra davvero, vedendo il veloce aumento del numero delle vittime in Palestina, notizie di cui si perde il conto sulle pagine di giornale, che il dolore non abbia mai fine. Come pare che gli uomini, di guerre, non ne abbiano mai abbastanza. Forse, allora, questo è veramente un ciclo inevitabile, destinato a ripetersi in eterno sotto i nostri occhi. Forse, però, per noi è ancora troppo presto per rassegnarci a una tale sorte ineluttabile. Quello è il ruolo delle supplici, noi invece, abbiamo ancora tempo di sperare.