IL TEMPO SCORRE ANCHE NELL’ARTE

Chiara Toso, 5H, Liceo Classico “G. Parini”

Ci siete? Ci siamo tutti? Bene, allora possiamo iniziare. Ma solo se ci siete veramente, altrimenti lasciamo pure stare; bene, esserci ci siamo, siamo qui, proprio qui, io a scrivere e voi a leggere quindi siamo tutti esattamente qui. Che bella cosa, l’esserci. Esserci. Ci eravamo tutti davanti al dolore angosciante di Filottete, alla sofferenza di Medea e abbiamo visto e contato uno ad uno tutti i pugnali nello stomaco di Eracle proprio mentre la vita glieli faceva sprofondare dentro. Il teatro di strada della compagnia dei Borgia ti catapulta dentro a una realtà di soprusi, di difficoltà che ti fanno salire la bile in gola, di passioni così forti da strozzarti il cuore e così tanto reali e crude, viste nella loro grandissima fragilità; e siamo tutti lì, in pochi – ed è questa la bellissima particolarità di questo teatro, l’intimità che si crea  – a godere della vita nella sua rappresentazione più nuda. 

In solo ventiquattro persone, e spesso ancora di meno, si assiste allo spettacolo di Gianpiero Borgia, un regista che mette sul primo piano la sofferenza umana, le disuguaglianze sociali e l’ingiustizia che come un cancro pervade la nostra società, ma soprattutto la nostra indifferenza ad essa. Una indifferenza che s’insinua perfino nello spettacolo: più volte gli attori rompono con libertà e coscienza totale la barriera che li separa dagli spettatori, una barriera che non ha nemmeno più senso di esistere. In un teatro come questo, un teatro che fa politica, una politica cruda, senza paura, il dialogo con l’altro è importantissimo. Ma, l’indifferenza verso questo dialogo persiste: il pubblico raramente, in questa rappresentazione, dava cenno di voler comunicare. Forse il problema sta a come vediamo il teatro; magari come una mera ‘forma d’Arte’, che di per sé non vuol dire nulla se non un godere della bellezza delle sensazioni ed emozioni umane attraverso la catarsi. Nel ridere, nel piangere. Il teatro dei Borgia si propone di fare qualcosa in più, è un teatro che vuole rompere il vetro che ci separa dalla sofferenza che vediamo tutti i giorni per strada o in qualsiasi altro luogo. Un teatro che mette in primo piano i valori e solo dopo la forma. 

Stanza rosso vivo, un uomo che danza con le lacrime agli occhi preso da un dolore lancinante. Un uomo sofferente che ti chiede se vuoi ballare con lui, che innaffia un cespuglietto di piante finte, spaventato dalla sofferenza che vede dentro di lui e da quella che vede fuori. Sorge la rabbia, una rabbia che vediamo anche in Medea, nel travaglio che l’ha portata in Italia, una rabbia che c’è perfino in Eracle mentre decide di uccidere sua figlia e sua moglie. E’ il grido di una società che lascia indietro coloro considerati inutili, che odia le donne e non si preoccupa dell’altro. Il grido dell’uomo che ha perso una morale e l’ha seppellita a fondo dentro se stesso, smettendo di preoccuparsi degli altri e delle cose pubbliche. Le tre storie raccontano di una sofferenza che non si può curare con i beni materiali perché Eracle quelli stessi beni li perde tutti, o con le medicine, Filottete le ingoia ogni sera ma non gli procurano alcun bene, o con la violenza verso il prossimo che vediamo in Medea. Ciò che scalda, ciò che porta conforto, in tutta quella realtà difficile, è la condivisione: del pane, dei disegni, della danza, dei momenti. Il confronto tra umano e umano, l’arte di creare contatto. L’amore verso gli altri, il fare del bene, per quanto banale possa suonare, è ciò che ci può portare avanti, ci può far guardare oltre. 

La scelta del regista è stata di utilizzare i nomi di grandissimi e conosciutissimi personaggi dei miti greci per parlare di storie che fanno parte della quotidianità e anche con una certa frequenza ingente. Elena Cotugno, o Medea, si è recata di persona e tutt’ora continua a farlo, tra le ragazze che lavorano in strada schiave del mercato della prostituzione. I fatti, le storie su cui i loro testi si basano sono concreti e reali, non c’è finzione. Eracle è un padre e marito che va alla Caritas per mangiare qualcosa tutti i giorni mentre Filottete è un anziano che con tutti i ricordi di una vita soffoca un presente di solitudine e abbandono. Il teatro dei Borgia anche qui, ci ricorda come l’altro esista, come la persona che abbiamo davanti sia reale, un concentrato di passioni e sentimenti tanto quanto noi; spesso, nell’alienazione delle grandi città, soprattutto Milano, nella fretta, dimentichiamo di esser circondati dalle persone che di fatto, nella vita, sono i nostri migliori alleati. Come scrive Leopardi, dovendo già combattere contro la natura, che può essere interpretata in vari modi, come per esempio nella malattia di Filottete, non possiamo permetterci di vivere egoisticamente escludendo l’altro. L’altro fa parte del nostro quotidiano e riconoscerne la sofferenza e decidere di non ignorarla è uno dei migliori gesti che possiamo fare. Gesti che possono partire anche dal piccolo: meravigliosa la scelta dell’ attore che vive in Eracle, di impacchettare durante il monologo sacchetti con del cibo che saranno destinati ai senzatetto, ai quali li avrebbero distribuiti la sera stessa. Un tozzo di pane profumato cucinato poco prima, del tonno, una bottiglia d’acqua, una mela: piccole cose che sono l’emblema di una persona che decide di soccorrerne un’altra. La musica, la danza, la cucina: permeano una a testa i tre monologhi, creando un’atmosfera così umana e semplice che nessuno spettatore si aspetterebbe leggendo il volantino di una rappresentazione di Medea, Filottete, Eracle. E’ come se questa rappresentazione teatrale prima ti tirasse uno schiaffo facendoti svegliare dal sonno dell’inerzia, gettandoti nella pozza gelida della vita che scorre, poi ti desse un caldo abbraccio: l’intimità dello stare tutti insieme noi spettatori in quella piccola stanza con Filottete, ascoltandolo parlare della sua solitudine, oppure i disegni dei figli di Medea fatti da lei stessa, o la condivisione del pane con Eracle. E’ un teatro di grandissima umanità, fatto da uomini che raccontano storie di altri uomini, di cui o condividono oppure percepiscono il dolore, è creare arte narrando storie umane. Questo è ciò che serve soprattutto adesso che in post-pandemia la povertà è salita e sempre più la solitudine è sentita, specialmente dagli anziani. Questo è parlare di qualcosa che sta sotto di noi, si è insinuato, ma ci siamo rifiutati di vederlo per un grande periodo. 

Questo teatro parla della controversia e contraddizione dell’uomo: l’uomo è carnefice, come Eracle, come Medea. L’uomo è forse la creatura che più soffre: la nostra emotività è delicatissima ed enormemente magistrale. E’ un essere vivente che crea e distrugge: un animale che riesce a leggere tra le righe. Non c’è nessuna vergogna in ciò che l’uomo è e sente di essere. Non viene buttata nessuna vergogna addosso a Medea o ad Eracle e nessuna pietà eccessiva su Filottete: l’uomo è questo, punto. E’ la nostra sofferenza. E la nostra gioia. Non c’è nessun imbarazzo, nessun tentativo di mascheramento in questo teatro. Nessuna finzione, paradossalmente. Questo è ciò che siamo. E quando riconosciamo la nostra debolezza, la nostra umanità, solo lì allora staremo vivendo intensamente. Intensamente proprio come viene portata l’introspezione nel teatro dei Borgia, intensamente come le emozioni lì cadono come un acquazzone e infradiciano tutto, intensamente perché la passione, il sentimento è il fiume impetuoso che scorre nella valle della nostra vita. E parlare di questo fiume, nel teatro, cosa antichissima che fece addirittura Euripide, alla scoperta dell’interiorità, è essenziale. E’ la linfa della vita stessa. 

Elena ci fa ascoltare una canzone rumena. Daniele, attore che interpreta Filottete balla davanti ai nostri occhi stringendo la bolla di un pesce rosso fra le mani. Christian esprime una quotidianità così reale tra la radio ed il forno che riesce a creare una intimità naturale con gli spettatori. Il tempo continua a scorrere anche durante i monologhi, non si ferma, non si cristallizza come si cristallizzerebbe in una tragedia greca antica o in qualsiasi altra rappresentazione moderna. Si ha proprio l’impressione che invece vada avanti anche con una certa tranquilla urgenza: ha qualcosa da dire, tanto da dire, tantissimo, e lo vuole dire con energia e fretta – inteso come necessità urgente – ma lo fa prendendosi i suoi spazi, i suoi tempi in lunghissimi silenzi degli attori che si prendono secondi per guardarsi attorno e dentro e goderne anche loro, soffrire anche loro, percepire la grandezza del messaggio che stanno comunicando. Questi grandi silenzi possono mettere a disagio lo spettatore, possono farlo irrigidire sulla sedia e fargli chiedere ‘E adesso? Cosa dovrei fare?’. Sono silenzi che lo mettono alla prova, lo pongono davanti alla realtà dei fatti, una realtà che è lì pronta in agguato appena giusto un millimetro fuori dalla sua bolla di agiatezza e tranquillità; essa lo provoca. Un teatro e una interpretazione provocante, l’attore ci guarda sempre dritto negli occhi quando recita. Ci pone domande: Chi siete? Da dove venite? Dove andate? Che ne pensate? Ma soprattutto, ci chiede: Ci siete? Siete veramente qui con me mentre canto magistralmente la sofferenza umana o pensate alle vostre vite, alle vostre tenere e tranquille case? Siete davvero qui? Nessuna risposta. Siamo lì? Eravamo lì? Io penso di sì. Le loro parole hanno commosso tantissimi astanti, li hanno toccati. Eravamo lì, emotivamente e spiritualmente. Ci siamo tutti spogliati, durante quelle ore lunghe che portavano pian piano alla sera, dei nostri pregiudizi, delle nostre paure. Ci siamo spogliati dall’insicurezza, dalla rabbia e dalla tristezza. Ci siamo spogliati dall’odio proprio come Eracle che si è tolto sette camicie, lentamente, facendoci saggiare lo scorrere del tempo, come Filottete che ha ingoiato sette pastiglie e Medea che si è spogliata di sette mutande. La sofferenza vissuta in maniera così forte ti lascia senza fiato. Ti lascia nudo.

La scelta di comunicare col pubblico è una scelta molto coraggiosa; stai dando spazio a qualcosa di inevitabile, una risposta da parte di qualcuno che potresti non aspettarti, ma che al contempo arricchisce in maniera incredibile il momento, dando spazio a chiunque di poter intervenire per creare un qualcosa di sempre nuovo, poiché quel momento preciso, in cui c’è quell’esatto spettatore e l’attore è in un particolare stato d’animo,  non si potrà mai più ripetere e denota come essi non stiano solo recitando un copione ma stiano vivendo lo spettacolo umanamente, sulla loro pelle, senza protezioni nemmeno dal pubblico. Perciò diventa un teatro a contatto stretto con la realtà dei fatti che accadono nel presente, sia riguardo alla questione delle ingiustizie, sia riguardo al presente inteso come rapporto spettatore-pubblico, che viene spesso invece messo da parte. 

Ad un certo punto suona il forno: rintocco del timer. Finisce la canzone, o parte il furgone. La realtà dei fatti è che il teatro è una potentissima forma d’arte e dialogo, scambio e dialogo. Ma rimane pur sempre qualcosa di astratto, se non lo si concretizza in fatti veri e propri. Ci hanno mostrato la sofferenza che hanno visto e ci chiedono di capirla, comprenderla, decidere se accettarla e nel caso, farci qualcosa. Perché il tempo scorre e nel mentre la rappresentazione va avanti, il dolore di cui hanno parlato continua ad esistere e ad essere patito. Tutti e tre i monologhi terminano con una improvvisa fatalità; ciò a cui abbiamo assistito è reale e non ha una fine, continua e sta continuando nel mondo tutt’ora e perciò non c’è bisogno di mettere un punto alla fine della frase e non c’è bisogno di far terminare il monologo con convenevoli. Alla fine, tutte queste, sono solo <<”parole come piccoli inciampi per frenare il tempo che corre via”>>.


LA CITTÀ DEI MITI


progetto di Elena Cotugno e Gianpiero Alighiero Borgia
testi Fabrizio Sinisi
arte drammatica e ricerca sul campo Elena Cotugno, Christian Di Domenico, Daniele Nuccetelli
allestimento spazio scenico Filippo Sarcinelli
costumi Giuseppe Avallone con la collaborazione di Elena Cotugno
ideazione e regia Gianpiero Alighiero Borgia
produzione TB/Teatro dei Borgia in co-produzione con CTB – Centro Teatrale Bresciano e Il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia con il sostegno di Fondazione Vincenzo Casillo e di Cooperativa La Rete